L’esame della casistica analizzata dalla giurisprudenza dimostra come, spesso, le pretese coltivate dall’Amministrazione finanziaria, sino al grado di legittimità, non solo appaiano traballanti, ma in completa disarmonia con i principi di buona fede e leale collaborazione tra contribuente e uffici finanziari, principi che, di tanto in tanto, vengono “promulgati” dai vertici delle Entrate e dovrebbero, sempre e comunque, governare l’azione amministrativa.
Il tema, per gli operatori del diritto tributario, è assai noto.
Nel momento in cui si redige il bilancio finale di liquidazione, succede che si omette l’indicazione di crediti fiscali, il caso classico è l’IVA.
I crediti, in assoluta osservanza della legge tributaria, sono indicati nella dichiarazione fiscale, con barratura dell’apposita casella del rimborso, ed emergono dalle scritture contabili.
Dal punto di vista della loro esistenza, non vengono comunque contestati dall’Erario.
La domanda di rimborso viene rigettata, dopo magari averla reiterata più volte, vuoi sulla base del fatto che il credito, ancorché esistente e documentato, non è indicato nel bilancio finale di liquidazione, vuoi perché detto obbligo deriva da una precisa disposizione normativa.
La disposizione richiamata è l’art. 5 del DM 26 febbraio 1992, secondo cui la restituzione dell’imposta è subordinata all’inserimento del relativo credito nel bilancio finale di liquidazione.
Peccato che il decreto ministeriale citato sia stato emanato in forza del DL 47/92, decreto legge che non è mai stato convertito in legge.
Ciò, naturalmente, determina l’assoluta irrilevanza del decreto ministeriale, con venir meno dei relativi effetti (Cass. 6 maggio 2016 n. 9192).
Ieri, la Corte di Cassazione, con la sentenza 8167, riafferma i menzionati principi, nemmeno esaminando la questione dell’art. 5 del decreto del 1992, pur sollevata nei motivi di ricorso in Cassazione.
I giudici ribadiscono che il rimborso “non è condizionato all’esposizione del credito stesso nel bilancio finale della società …, in quanto l’efficacia probatoria dei libri sociali, derivante dalla normativa pubblicistica, attiene ai rapporti di debito e credito inerenti all’esercizio dell’impresa, mentre la contabilità IVA, pur non avendo alcuna efficacia probatoria in tali rapporti, documenta comunque il debito fiscale, rendendone possibile il controllo da parte dell’amministrazione finanziaria”.
Ma quanto esposto, proseguono i giudici, è a maggior ragione valido se il credito è stato sì indicato, ma incluso nella voce “Crediti verso altri”, e per un importo non esattamente coincidente con quello emergente dalla dichiarazione IVA.